Storie di un inviato speciale. Quando «i giornalisti partivano e consumavano le scarpe»
Toscana Oggi, 21-07-2019, Antonio Lovascio
Per fare il giornalista bisogna avere una buona dose di ingenuità. Non si deve essere disincantati. Si deve credere in quel che si fa. Per fare bene il mestiere, è importante avere inclinazioni da camaleonte. Bisogna voler capire l’altro e anche volergli assomigliare o adeguarsi alla situazione. Sorrido pensando che nei Paesi arabi andavo in giro con buffi fez color amaranto e che in Russia col colbacco sembravo più russo dei russi. Quando facevo l’inviato sembravo un inviato, quando facevo il direttore sembravo un direttore». Così Giovanni Morandi – fiorentino, editorialista del «Quotidiano Nazionale», dopo aver guidato «Il Giorno», «Il Resto del Carlino» e lo stesso «QN» – nelle sue memorie appena pubblicate col titolo ll giornale fatto coi piedi. Storie di un inviato speciale (Mauro Pagliai Editore, pp. 256, euro 12) sintetizza la «filosofia» di una professione ancora tanto ambita dai giovani, ma che purtroppo paga il prezzo della pesante crisi della carta stampata che perde ogni giorno lettori. Un libro nato dalle agende compilate e gelosamente custodite per tutta la vita, scritto quindi sotto forma di diario, che permette all’autore di parlare liberamente delle sue sensazioni, emozioni e opinioni – quasi come le stesse confidando ad un amico molto stretto – di quando «i giornalisti partivano e consumavano le scarpe e non restavano in redazione a consumarsi gli occhi davanti ai computer». Pillole di piacevole lettura, perché velate di sottile ironia, che comunque fanno intuire
la forza della scrittura di Morandi, l’energia della raffigurazione, la fluente, precisa costruzione di ogni suo articolo pubblicato sui giornali della Poligrafici Editoriale. E insieme, la felicità ogni volta del capire e del raccontare, una sorta di abbandono responsabile e vigile al richiamo della storia, qualcosa di quasi fisico, materiale, dove la vicenda lo domina possedendolo. Perché lui ha vissuto veramente, da osservatore, alcuni appuntamenti con la Storia, senza mai dimenticare le tre regole d’oro del grande Egisto Corradi, avallate da Indro Montanelli: «L’inviato speciale è sempre nato ieri. Fìdati degli odori e degli umori. E verifica gli odori e gli umori». Corrispondente da Mosca negli ultimi anni dell’URSS, ha assistito, unico giornalista straniero, allo storico ammainabandiera avvenuto il 25 dicembre 1991 al Cremlino, descritto con intensa partecipazione nell’unico articolo interamente riprodotto nel libro. Ha più volte intervistato Gorbaciov, accompagnandolo anche nei suoi viaggi da «pensionato» in Italia. Con la stessa densità emotiva ci fa rivivere i lunghi soggiorni in Polonia (si era addirittura trovato un sarto di fiducia!) fin dai tempi di Solidarnosc e Lech Walesa protetti da Papa Wojtyla; le «battaglie» ingaggiate con spie o spioni in Bulgaria e negli altri Paesi che allora gravitavano nell’orbita di Mosca, con Putin già insediato alla guida del Kgb. Cosi come ci rimanda ad alcuni reportages di guerra da Medio Oriente, Africa, Libano e dai Balcani. Tragedie ed e
sperienze seguite da «solitario don Chisciotte» ed a volte condivise con colleghi poi diventati compagni di avventure, come Antonio Ferrari, Vittorio Dell’Uva ed Ettore Mo. Senza dimenticare servizi ed inchieste dentro i confini nazionali (hanno anche ispirato libri di successo come La beffa di Modigliani - 2004, 2016) sulla Mafia, su Tangentopoli e la nascita della Seconda Repubblica con la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Correndo dietro a quest’onda di eventi, il «diario» di Giovanni Morandi ci porta quasi alle soglie dell’esplosione populista gialloverde, nella quale però non si addentra. Mi rimane ancora qualche riga per ritornare agli inizi del libro. Dove l’autore, citandomi, ricorda l’approccio con il giornalismo, nella redazione fiorentina di «Avvenire», il suo primo articolo firmato, la mattina dell’11 settembre, era un martedì, il giorno in cui il generale Pinochet fece il colpo di Stato contro Salvador Allende. Tre anni a raccontare i fermenti dell’Università fiorentina, prima di passare nel 1976 alla «Nazione» a narrare l’escalation di Potere Operaio nelle aule dell’ateneo e, negli anni seguenti, la vita politico-amministrativa di Palazzo Vecchio. Scorrono le immagini di antichi maestri o punti di riferimento (Elvio Bertuccelli, Alberto Marcolin, Luciano Satta, Sergio Forti), di qualche amico prematuramente scomparso (Mario Spezi). Ma soprattutto Giovanni fa capire com’era organizzato il giornale di una volta. Lo rimpiange. Posso dirlo? Ne ha tanta nostalgia!