Cieli di terracotta
L’Osservatore Romano, 04-08-2019, Silvia Guidi
Il Sacro Monte di San Vivaldo in Toscana

Anche la Toscana (o meglio, quello che la gente del posto chiama con ironia mista a orgoglio il Chiantishire) ha il suo Sacro Monte. Un gioiello che rischia di passare inosservato in una regione in cui anche il paese più piccolo ha il suo capolavoro da custodire. L’ultimo libro di Maurizio Volpi – presbitero della diocesi di Volterra e missionario della Misericordia – La Gerusalemme di Toscana. Un percorso spirituale tra le cappelle di San Vivaldo (Firenze, Editore Mauro Pagliai, 2019) non vuol essere l’ennesima pubblicazione erudita, ma l’occasione per portare nuova vita a un luogo tenacemente vivo da oltre cinquecento anni. Il volume è stato presentato qualche giorno fa a Firenze nell’ambito delle «Niccolitudini. Incontri che non annoiano (e durano poco)», definizione semiseria in linea con l’inguaribile autoironia dei toscani. Il tema, però, è serio, e affrontato con passione e competenza. Le cappelle del santuario di San Vivaldo in Valdelsa sono una Gerusalemme in miniatura, pensata e costruita nel XVI secolo per offrire a tutti la possibilità di fare un pellegrinaggio senza dover affrontare un viaggio in Terra Santa. Nel volume la descrizione del percorso è accompagnata da meditazioni sulla Scrittura, per illustrare al lettore ogni stazione, aiutandolo a capire il significato dei bellissimi altorilievi in terracotta di scuola robbiana (non invetriati ma dipinti a freddo, di più rapida realizzazi
one e più economici) che decorano le cappelle. «Ci sono molti personaggi nel ruolo degli aguzzini – scrive Volpi commentando la scena della Veronica – e qui dobbiamo notare un dettaglio che rivela qualcosa di interessante sul rapporto tra il fedele e l’immagine». Nelle opere in cui Gesù è oltraggiato, spesso accadeva che i pellegrini si accanissero contro i simulacri dei soldati, sfigurandone i volti. A noi oggi può sembrare strano, ma allora era un modo per partecipare al dramma raffigurato. «Qui la violenza si è scatenata contro l’aguzzino che trascina Gesù legato con una fune – continua Volpi – al quale un giorno qualcuno ha rotto la faccia. Ma anche quello che è accanto a lui non è messo meglio. Il particolare è interessante perché ci aiuta a riflettere su un punto fondamentale: il rapporto che si instaurava con queste opere era, chiamiamolo così, molto interattivo. Oggi non solo nei musei ma anche nelle chiese se ci si avvicina troppo a un quadro o a una scultura suona l’allarme. Cinquecento anni fa non era così e quelle che noi oggi, con la nostra cultura, definiamo opere d’arte per la sensibilità di allora erano considerate anzitutto dei mezzi, degli strumenti a servizio della fede e della preghiera. E come tali si potevano (e per certi versi si dovevano) toccare». Questo rapporto “affettivo” portava i fedeli anche a infierire con violenza sulle opere, quando indicavano qualche figura esplicitamente nemica come il demonio, i t
orturatori e i carnefici di Gesù. «Forse dovremmo recuperare un po’ di questa sana passione, ovviamente senza arrivare a fracassare un’opera d’arte, per non ridurci a essere solamente spettatori cortesi, colti e beneducati, che sanno ammirare la bellezza, ma freddi dentro e incapaci di amare». Non a caso nel 2017, i primi cinquecento anni del Sacro Monte di Toscana sono stata celebrati dalla lettura scenica di una versione novecentesca della Passione, capace di far vivere nel presente il racconto fissato nelle terracotte di San Vivaldo. Il testo scelto da Salvatore Ciulla – per molti anni direttore artistico di un’altra “palestra di Incarnazione” che ha sede a pochi chilometri di distanza, la Fondazione Dramma popolare di San Miniato – è stato il romanzo breve di Elena Bono La moglie del procuratore , gli ultimi giorni della vita terrena di Gesù nel racconto di Claudia Serena Procula, la vedova di Pilato, nella riduzione teatrale firmata da Francesco Marchitti, che trasforma la prosa della Bono in un dialogo serrato tra i personaggi in scena. Passano i secoli ma San Vivaldo resta «il luogo dell’accadere», e del riaccadere di quello svelamento di sé stessi che il rapporto con ogni opera d’arte autentica genera, in quell’approfondirsi di conoscenza che è possibile solo in una relazione viva e personale, non mediata, con quello che l’artista ci ha consegnato, fissandolo nei colori accesi della terracotta dipinta o tra le pagine di un libro.