Primo Conti, quel delirio selvaggio dal Futurismo a tutto il 900
Il Giornale Off, 10-12-2018, Maurizia Tazartes
Che fosse un tipo originale si vedeva subito. Ultraottantenne, vitale e pimpante con baffi, barba, capelli lunghi, sguardo indagatore, nel giardino della sua villa a Fiesole indicava una specie di costruzione rettangolare tra fiori, galli, galline e diceva: «Ecco, io sarò seppellito qui, in casa mia». Poi nello studio mostrava orgoglioso i suoi disegni. Geometrie. Forme armoniche dagli accostamenti vistosi e azzeccati, verdi, viola, neri. E titoli poetici: Donna nel bosco, 1984-1988, Pierrot lunaire, 1985.
Erano gli ultimi gridi o palpiti di un pittore che aveva attraversato tutto il Novecento e molti dei suoi movimenti rimanendo sempre se stesso. Un mago del colore, forte, brillante, costruttivo. A ricordare oggi Primo Conti, nato a Firenze nel 1900 e lì morto nel 1987, è una ricca mostra nella città natale, Fanfare e silenzi. Viaggio nella pittura di Primo Conti, in corso sino al 13 gennaio, a Villa Bardini, e in altre due sedi a Fiesole, la Fondazione Primo Conti e la Sala del Basolato. Curata da Susanna Ragionier
i (catalogo Pagliai Polistampa) riunisce quasi 150 opere di Conti e contemporanei nelle due prime sedi, mentre nella terza sfilano immagini biografiche.
Enfant prodige, Conti, ottimo violinista a dieci anni, a tredici ha già uno studio di pittura in Piazza Savonarola a Firenze. Vede e frequenta mostre futuriste e incontra Soffici, Marinetti, Papini, Carrà, artisti e letterati. Dipinge opere coloratissime, fauves e secessioniste, dal sapore vagamente alla Matisse o alla Cézanne, come Vecchio col turbante bianco, del 1913, Allegoria, Autoritratto con sciarpa, entrambe del 1914; Arlecchino e Autoritratto con accappatoio del 1915. Un capolavoro è il Nudo di ragazzo dello stesso 1915, in cui si coglie la freschezza e l’entusiasmo giovanile per la pittura francese, da Soutine a Kokoschka a Gauguin.
Sono sperimentazioni geniali, attente alla contemporaneità, come notava Palazzeschi. L’artista ventenne conosce futuristi e macchiaioli, la pittura drammatica di Lorenzo Viani e la decorativa di Galileo Chini, la metafisi
ca di De Chirico. Scrive raccolte poetiche e fonda riviste. È immerso nella vivace cultura del tempo e costruisce col colore immagini solide come Donna e cocomero del 1915, che ricorda Viani. È il momento del «delirio selvaggio», come scriveva, di paesaggi e nature morte sintetiche e incisive. È il periodo di Viareggio e della Versilia.
Mentre la tela con Il limonaro del 1919, firmata in basso a sinistra, è considerata dallo stesso artista metafisica.
Nel suo libro La gola del merlo del 1983 ne racconta la genesi nelle stanze vuote della casa ad Antignano: «Ero partito con una costruzione di forme molto disciplinata nei suoi valori contemplativi: poi, ad un certo momento, mi venne un bisogno quasi selvaggio di animarla mettendoci sopra occhi, naso, bocca e una grande pipa bianca […]. C’era in questa specie di Metafisica uscita dal Futurismo come un urlo, un rigurgito da bassa plebe che la rendeva diversa da quella di De Chirico…».
È solo l’inizio di una lunga e complessa strada piena di svolte.