Luigi Pirandello “politico”. Una biografia illuminante esamina un aspetto controverso del Premio Nobel
Formiche, 17-02-2018, Gennaro Malgieri
A centocinquant’anni dalla nascita e a poco più di ottanta dalla morte non ci si è quasi provati da parte di accademici ed intellettuali assortiti a dare un’immagine di Luigi Pirandello che fuoriuscisse dall’ambito letterario e drammaturgico. Eppure la sua personalità complessa e la sua vita sufficientemente tumultuosa avrebbero autorizzato indagini approfondite, ben oltre i recinti nei quali abitualmente ci si muove. Brilla per la sua “solitudine”, se non andiamo errati, un dettagliato saggio “non conformista”, ai limiti del “politicamente scorretto”, della studiosa Ada Fichera che ha piegato la sua passione pirandelliana all’esigenza di offrire una immagine completa dello scrittore. Il suo “scavo” ha dato i frutti sperati: l’emersione del lato politico dell’uomo che dopo la sua scomparsa la critica ha quasi “sterilizzato”, come se la notorietà internazionale conquistata per l’indiscutibile valore della sua opera, la nomina all’Accademia d’Italia nel 1929, l’attribuzione del Premio Nobel nel 1934, dovessero offuscare le idee che professava e soprattutto l’approdo, tutt’altro che occasionale e opportunistico, al regime cui guardò peraltro in maniera critica e con il quale il rapporto non sempre fu idilliaco.
pirandello La Fichera, autrice, dunque, di Luigi Pirandello. Una biografia politica (Edizioni Polistampa), con la prefazione di Marcello Veneziani, colma un vuoto francamente irreale ed insopportabile. Nell’occuparsi prevalentemente di questo aspetto, l’autrice è stata mossa dalla consapevolezza che vi è un “Pirandello sconosciuto”, per di più “uomo politico a contatto con la politica che troppo spesso è stato più facile celare, non studiare, talvolta persino rifiutare, piuttosto che tenerlo in considerazione non solo in una eventuale trattazione biografica (…) ma anche in una lettura critica e interpretativa delle sue opere e di tutto il patrimonio letterario che a noi ha lasciato”.
È questo l’aspetto più rimarchevole del libro che, ovviamente, non tralascia alcun aspetto della vita intima, pubblica, intellettuale di Pirandello, ma riesce a “trascinarlo” lungo la vicenda politica del suo tempo con straordinaria obiettività dando vita ad una rappresentazione – davvero “pirandelliana” – intessuta di contraddizioni e entusiasmi, repulsioni e ripensamenti, che, per esempio (ma non è provato) lo porteranno a definire Mussolini “un tubo vuoto”.
Che poi il drammaturgo non la pensasse così è comprovato da una serie di documenti che la Fichera produce senza sovrapporre ad essi il suo giudizio ed è questo un altro merito dello studio condotto con scienza e coscienza, senza pregiudizi ideologici, al allo scopo di realizzare, come nota Veneziani, “un lavoro attento e organico”. Al punto che la descrizione del percorso pirandelliano è come un viaggio nell’epoca segnata da idee forti, tali da influenzare il più grande drammaturgo italiano del secolo scorso. Idee alle quali non verrà mai meno, dimostrando di avere un “brutto carattere”, come ricorda Veneziani, che gli fruttò in più occasioni la censura del regime e l’avversione di alcuni potenti gerarchi. Il che non pregiudicò la candidatura al Nobel, coronata dal successo, avanzata dalle istituzioni culturali it
aliane.
L’adesione al fascismo da parte di Pirandello non fu legata all’affermazione politica del movimento. Ancor prima del 1922 egli si espresse pubblicamente contro la visione della vita “democratico-borghese”. Una visione che affondava le radici nella sua stessa formazione culturale che potremmo definire “pessimistica”, improntata quasi a “tragedia cosmica” nella considerazione dell’impossibilità per l’individuo che vive in una società apparentemente felice, quale dovrebbe essere quella borghese, di realizzare a pieno la propria “coscienza” perennemente in lotta contro gli elementi umani e naturali.
L’ideologia liberal-democratica aspira a costruire una società pressoché perfetta le cui strutture siano quanto più possibile immutabili, unitamente al raggiungimento dell’obiettivo di “liberare” l’individuo da tutti i legami che ne limitano l’agire. Pirandello capovolge tale assunto ritenendo l’infelicità umana permanente anche in una società che si reputa “felice” o tendente a tale obiettivo. Ed argomenta che la società percepisce degli esseri umani soltanto la maschera degli altri, cioè quello che appare. Per Pirandello non c’è, dunque, la possibilità di liberare la  “coscienza” in un contesto collettivo quando si è costretti a vivere inevitabilmente degli stessi valori che livellano, come dimostra nei Sei personaggi in cerca d’autore.
In altre parole, una tale spinta all’egualitarismo, propria della società borghese, al di là delle differenze classiste, ma omogenea dal punto di vista culturale, non ammette una maturazione della coscienza che vada oltre i valori borghesi stessi. Pertanto, Pirandello non può accettare le leggi e le regole di un tale tipo di società e, di conseguenza, si scaglia contro la “morale” alla quale si conforma. La “coscienza”, a suo giudizio, non può sottostare a regole che le sono contrarie, perché ciò vuol dire farla morire, annichilirla, anche se riconosce, al tempo stesso, che essa, poiché è vita, deve calarsi in una forma o costruzione, come espliciterà compiutamente nel Mattia Pascal.
Date queste premesse, non è difficile comprendere perché Pirandello nell’ordine della società borghese che in Italia, al tempo corrispondeva politicamente a quella giolittiana, scorge le origini del caos, mentre in quella nuova, prospettata dal fascismo che si andava affermando, intravede una sorta di “filosofia dell’ordine” in grado di regolare i conflitti e dimostrare l’assunto che la coscienza è libera soltanto nell’ambito di un ordinamento che previene lo scatenamento degli odi elementari. Pirandello, insomma, fonda la propria adesione al fascismo sulla rinuncia ad ogni  “illusione collettiva” basata su motivazioni ideologiche ritrovando nell’anti-ideologismo del “primo” fascismo, giusta la valutazione al riguardo di Rensi e Tilgher, la coincidenza con il suo sentire morale, artistico e filosofico.
Non deve, dunque, destare meraviglia se proprio al culmine della crisi del fascismo, nel 1924, dopo l’assassinio di Matteotti, Pirandello inviò a Mussolini questo telegramma: “Eccellenza, sento che questo è il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita in silenzio. Se
l’Eccellenza Vostra mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenervi il posto del più umile ed obbediente gregario”.  Poi vennero altri atti, interviste e dichiarazioni che palesarono l’adesione di Pirandello al fascismo. Ma non bastarono a guadagnarli le simpatie di tutti i gerarchi del regime che in più occasioni lo ostacolarono, non comprendendo la sua grandezza letteraria, fino a censurarne alcune opere.
Comunque, al di là della “partecipazione” alla costruzione della “nuova Italia”, come si diceva all’epoca, la chiave per intendere compiutamente la posizione politica di Pirandello è la concezione dell’artista-politico come interprete capace di dare “oggettività” alla “soggettività”, vale a dire trasporre i fatti e le considerazioni umane in un modello sociale e statuale, quindi “forma”, in grado di farli recepire adeguatamente. Il politico-artista, secondo Pirandello, è il solo in grado di rappresentare i fatti umani oltre i limiti che li contaminano, di disporli tutti su uno stesso piano, di estendere ogni singolo evento a problema universale senza, peraltro, dettare leggi assolute, ossia finzioni ideologiche. Analoga è la posizione di Mussolini riguardo al politico come artista, cioè  “modellatore” di masse, così come veniva definito Lenin considerato da Mussolini stesso un vero e proprio artista ante litteram.
La vicenda politica di Pirandello, narrata con dovizia di particolari da Ada Fichera, è intessuta di un intellettualismo talvolta difficilmente decifrabile e che forse Mussolini, tra i pochi, pur negandogli  talvolta l’agibilità per compiacere la sua corte, comprese adeguatamente: “Pirandello fa, in sostanza, senza volerlo, del teatro fascista: il mondo è come vogliamo che sia, è la nostra creazione”.
Tuttavia, nonostante le lodi, gli entusiasmi, le polemiche e il Nobel, il fascismo di Pirandello non poteva durare in eterno. E la spiegazione sta proprio nelle parole di Mussolini appena citate. Il bisogno di libertà del drammaturgo, la sua inquietudine caratteriale, la sua allergia alle irreggimentazioni, poco prima di morire gli fecero ritirare l’appoggio al fascismo, senza manifestare comunque ostilità postume o rancori tenuti a lungo serbati.
Con grande lucidità, la Fichera – che mostra di aver interiorizzato il pensiero e la visione del mondo di Pirandello – concludendo il suo saggio scrive: “Conservatore e moderato, si ritrova nell’etica del regime, e lo fa con convinzione e onestà, anche quando, anzi diremmo proprio quando, seguendo un’onda opposta scrive I giganti della montagna, in cui, in molti, hanno intravisto, forse a buona ragione, il simbolismo dei giganti intesi come rappresentanti dei rozzi fascisti, che ignoranti amano la guerra e non l’arte”.
Insomma, Pirandello, in fondo resta un enigma, e l’aspetto politico della sua vita quasi indecifrabile. Più degli atti formali, dell’adesione al regime o delle sue manifestazioni di contrarietà ad esso, politicamente inossidabile resta la sua concezione della società e dell’uomo nel tempo del trionfo delle masse, un orrore intollerabile, una follia che contagiò in parte anche quel regime nel quale aveva creduto e sperato che potesse ristabilire il primato della Forma sulla materia bruta.