Il primo gulag. Le isole Solovki
Storia in Rete, 01-06-2017, Guglielmo Salotti
Per sedici anni, dal 1923 al 1939, l’arcipelago delle Solovki (nel Mar Bianco, vicino alla Finlandia, a 165 chilometri dal Circolo Polare Artico) ospitò il primo campo di concentramento sovietico, trasformato poi in base militare. Il grande complesso monastico (tornato, dopo un lungo abbandono, alla Chiesa ortodossa nell’ultima decade del Novecento) che vi era stato eretto nel XV secolo dagli eremiti Savvatij, German e Zosima venne adibito, una volta privato di ogni traccia di simboli religiosi, a luogo di detenzione e di lavori forzati (ufficialmente di «rieducazione») per intellettuali, politici, militari zaristi, imprenditori, membri del clero, nobili, contadini, artigiani, operai, criminali comuni, prostitute. Furono circa ottocentomila i detenuti
del gulag delle Solovki nell’arco di quei sedici anni, e trecentomila circa le vittime delle fucilazioni, delle malattie, dei ritmi di lavoro imposti e delle tremende condizioni climatiche (con picchi di -50° nell’interminabile stagione invernale). I numeri, per quanto emblematici, finiscono per passare in sott’ordine rispetto alla quotidianità delle prove cui i detenuti delle Solovki furono sottoposti dai loro aguzzini. Una quotidianità che domina le pagine del saggio di Francesco Bigazzi, giornalista, in passato direttore dell’Ansa e addetto stampa e cultura presso il Consolato italiano a San Pietroburgo; pagine in cui i campi di lavoro correttivi (quello creato nel 1923 alle Solovki ne rappresenterà un prototipo) vedranno la realiz
zazione concreta di una programmata eliminazione di possibili nemici ideologici della rivoluzione. Il tutto, come Bigazzi sottolinea più volte, con la connivenza di esponenti del mondo della cultura; un nome fra tutti, quello di Gor’kij, che (duramente contestato per questo da Solženicyn in «Arcipelago Gulag») avallerà ed esalterà i risultati di quella pianificazione, senza nemmeno potersi appellare alla mancata conoscenza dei fatti. Un avallo, quello fornito da Gor’kij alla politica del Cremlino, utile all’interno ma soprattutto all’estero, dove tanti altri intellettuali andavano letteralmente a caccia di pretesti per chiudere gli occhi di fronte alla realtà sovietica e per denigrare e affossare le voci di dissenso.