Gli ultimi Piccolomini a Pienza
Libro Aperto, 01-10-2016, Gerardo Nicolosi
“Gli ultimi Piccolomini a Pienza” è il titolo di un bel libro di recente pubblicazione, con contributi di Fausto Formichi, Laura Martini, Fabio Pellegrini e Maria Laura Togni, che ha per oggetto la vicenda umana, politica e intellettuale del conte Silvio Piccolomini della Triana, della moglie Anna e del figlio Nicolò, una vicenda quanto mai indicativa del percorso compiuto dal notabilato italiano attraverso la storia d’Italia. È la storia di un protagonismo che è massimo nel periodo liberale, almeno sino alla Grande Guerra, ma che dal quel momento va progressivamente scemando sino ad un epilogo che si compie nei primi decenni dell’Italia repubblicana.
Il libro, che va innanzitutto segnalato perché frutto di una solida ricerca archivistica condotta su un articolato sistema di fonti, aiuta a riflettere su alcuni aspetti intimamente connessi con la storia del nostro Paese. Silvio Piccolomini era nato a Pisa da Enea Alessandro Piccolomini Carli professore di filosofia classica dell’Università di Roma, e da Sofia Giuggioli. Primogenito di nove figli, fu scelto dal conte Niccolò Piccolomini della Triana senza figli e senza eredi diretti, quale suo successore alla guida in un considerevole patrimonio. Da questo momento, la s
ua vita è una riprova della straordinaria vicinanza di questo notabilato alla cosa pubblica: dal conte Niccolò, infatti, Silvio ereditava non soltanto una immensa fortuna ma anche una tradizione di partecipazione politica e amministrativa che affondava le sue radici in un passato antico, possiamo dire “secolare”. Il conte Niccolò, di cui Laura Martini fa un bel ritratto mettendone appunto in evidenza l’attitudine alla “governance”, era stato il protagonista di una pagina importante della storia nazionale di una svolta epocale che vide coinvolta parte - non tutta - della nobiltà italiana, quella più al passo con i tempi, pervasa cioè di quelle idealità che costituivano l’avanguardia del pensiero politico europeo e che oltre confine erano servite al superamento delle ultime resistenze di ancien régime e alla costruzione di regimi costituzionali, una nobiltà animata dalle idealità liberali. Niccolò Piccolomini apparteneva a pieno titolo a quella che è stata definita la “generazione dell’Unità”: al momento della proclamazione del Regno d’Italia aveva quarant’anni e qualche anno dopo lo vediamo attivo politicamente a Siena tra i membri della “Perm
anente”, associazione della Destra storica; in primo luogo il Monte dei paschi di Siena. Il processo unitario e tutta la fase di primo consolidamento dello stato nazionale costituisce un momento in cui l’antica consuetudine agli affari pubblici viene messa ora al servizio delle esigenze della nuova entità statuale. Si trattava dunque di una élite che ha legato intimamente il proprio essere ai destini della nazione. Questa “vicinanza” alla cosa pubblica è ancora più evidente in quelle personalità percorse da afflato religioso: quasi superfluo ricordare come il Risorgimento e il processo unitario, che significarono una rottura con la Chiesa di Roma, furono vissuti con immenso travaglio da chi era stato sempre vicino ai motivi della fede e della religione. Sono molto belle e indicative in questo senso le parole di commiato che Pietro Rossi, rettore dell’università di Siena, pronunciò per ricordare Niccolò Piccolomini: un uomo che “amò fin da adolescente l’Italia” ma che non aveva rinunciato alla fede cristiana, per il quale la religione non era stata certo un ostacolo all’amare ed a servire la patria, un atteggiamento che accomuna buona parte della generazione dell’Unità.