Antologia di Firenze com’era
Corriere fiorentino, 29-06-2016, Gabriele Fredianelli
A Firenze si conobbero e si frequentarono pure nei salotti letterari, ma sembrarono abitare in due città diverse, almeno a leggere le loro parole. Se Stendhal definì il capoluogo granducale come “la città più pulita dell’universo”, Giacomo Leopardi, che sempre preferì smaccatamente Pisa e i suoi lungarni, classificò invece la città come “sporchissima e fetidissima” nel suo Zibaldone. E queste sono solo due delle contraddittorie annotazione che, lungo il corso di sette secoli, hanno riguardato Firenze, vista attraverso gli occhi (e la penna) di scrittori e personaggi celebri.
A raccoglierle per i Quaderni del servizio Educativo della Soprintendenza è stato Claudio Paolini in due volumi editi da Polistampa: Della città di Firenze e dei Fiorentini e Dei Fiorentini e della città di Firenze. In ordine cronologico, illustrato con belle foto in bianconero dei nostri giorni e coll’aggiunta di brevi e incisive biografie dei protagonisti, si comincia con la Cronica trecentesca di Dino Compagni e si chiude con Giovanni Michelucci, passando per il marchese de Sade, Charles Dickens, Mark Twain, Aldo Palazzeschi, Curzio Malaparte, Piero Calamandrei e ovviamente Vasco Pratolini che della fiorentinità è stato uno dei massimi cantori nel cuore stesso dei suoi romanzi. E senza tralasciare reportage come quello di Mary Mc Carthy, la Relazione sul governo della Toscana scritta dal granduca Pietro Leopoldo prima di rientrare a Vienna da imperatore e perfino il piano regolatore firmato nel 1915 da Giovanni Bellincioni, capo dell’Ufficio tecnico del Comune, col quale la città si apriva alla periferia di Rifredi. Firenze fu spesso descritta, a volte perfino banalmente, come bellissima, anche se forse il più ispirato fu Anatole France che s
crisse in pagini celebri e quasi blasfeme: “Il Dio che fece le colline di Firenze era un artista. No! Era un gioielliere, incisore in medaglie, scultore, fonditore in bronzo e pittore: era un fiorentino”. Ma questa raccolta, accanto alle impressioni di forestieri e indigeni, racconta la crescita e lo sviluppo della città, dai Medici ai Lorena, fino ai grandi lavori della Firenze Capitale e alla faticosa ripresa del secondo dopoguerra, compreso lo strazio della ritirata tedesca e della distruzione dei ponti, per giungere all’alluvione di mezzo secolo fa. Piccoli spaccati di vita quotidiana e riflessioni filosofiche su bellezza e arte. Profumi e gradazioni di luce, ombre e scorci imprevisti. Di tutto è stato scritto nei secoli sulla città del Fiore. Rainer Maria Rilke, arrivato per la prima volta diciottenne in città e con la testa piena delle decantazioni in lingua tedesca sul rinascimento fiorentino, prova il confronto con Venezia, rispetto alla quale Firenze “non si schiude al visitatore” ma leva davanti allo straniero il “sospettoso cipiglio di questi antichi palazzi cittadini”, con poche finestre a lasciar trapelare il senso delle mura ma “testimoni dell’orgoglio fiorentino nella fase di ascesa, quando sulla superbia e sulla virtù poggiò la base per l’arte più serena dei suoi giorni più luminosi”. Quello che più colpisce il viaggiatore antico sono le strade lastricate, non così banali all’epoca. Ma chi oggi si lamenta delle buche e del manto malamente asfaltato, si rilegga invece l’acido de Sade, il quale peraltro riteneva l’aria fiorentina addirittura mortale tra ottobre e dicembre: “ Le pietre piatte e larghe che pavimentano questa grande città hanno al primo colpo d’occhio un’a
pparenza di bellezza e di gusto. Ma non si tratta di apparenza. Vengono raramente riparate e per poco che si deteriorano formano dei buchi di una profondità capace, nell’oscurità, di dare origine a ruzzoloni veramente pericolosi”. In fondo, in mezzo a tanto miele sparso in ogni epoca sulla città, è forse più divertente leggere la maliziosità. Mark Twain, abituato all’orizzonte sconfinato del Mississippi, dell’Arno dice che “sarebbe un fiume plausibile se ci pompassero dentro dell’acqua” e che i fiorentini “aiutano l’illusione costruendovi sopra dei ponti”.
Discorso a parte meritano proprio i fiorentini, intesi come popolo. Quelli che Dino Compagni, descrivendo una città “temuta dalle terre vicine, più che amata”, tratteggia come “cittadini pro’ d’armi, superbi e discordevoli”, ma anche capaci “per loro superbia e per loro malizia” di avere “così nobile città disfatta”. Ed ecco il Villani a fargli eco: “I Fiorentini sono sempre in scisma, e in parti, e in divisioni tra loro”, attribuendone la colpa all’edificazione sotto il segno di Marte e alla sua origine un po’ romana e un po’ etrusca. E se Calamandrei scrive che “una delle gioie del fiorentino è quella di guardare i suoi simili, e magari se stesso, come se fossero caricature viventi: di cogliere, con una chiarezza irriverente e talvolta spietata, gli aspetti ridicoli di un personaggio o di un caso”, la stampatrice d’arte Maria Luigia Guaita aggiunge: “Potrebbe sembrare un popolo allegro e spensierato, se sotto il frizzo, la parola pungente, il motto di spirito sempre pronto, non nascondesse un fondo difficile e insoddisfatto, riservato e triste”.